Carissimi fratelli e sorelle,
carissimi presbiteri e diaconi, religiose e religiosi,per oggi era prevista la Celebrazione eucaristica che ci avrebbe riuniti in Cattedrale alle ore 19, ma l’attesa del tampone Covid, a cui dovrò sottopormi in misura precauzionale, e del relativo esito, ci costringe ad annullare questo appuntamento comunitario. Voglio rendermi, però, presente con questo scritto, che non definisco omelia, ma riflessione.
Ringrazio anzitutto don Antonio, il nostro Vicario generale, per aver pensato a questo momento comunitario e per averlo legato ad un dono da fare ad una struttura per anziani che sta a cuore all’intera Diocesi, la Casa di Riposo “Manfredi-Solimine” di Cerignola, uno dei primi luoghi che visitai al mio ingresso il 16 gennaio 2016. Ringrazio quanti di voi hanno offerto un dono per le necessità di questo luogo che accoglie alcuni nostri anziani, come anche chi ha voluto – con altre forme di carità – “festeggiare” con me questo quinto anniversario: credo che la condivisione sia la “lapide” più bella che rimane per celebrare certe ricorrenze. Essa non teme l’usura del tempo perché scritta nel Cuore di Dio. Grazie!
A cinque anni della mia ordinazione episcopale, mi lascio guidare dal ritmo della liturgia della Messa, scandito dall’Atto penitenziale, dall’ascolto della Parola, dalla Liturgia Eucaristica, dal mandato finale.
Anzitutto l’Atto penitenziale. Sento, col passare degli anni, che questo atto esprime la verità della nostra condizione umana, della Misericordia di Dio e della misericordia cristiana. Chiedo, perciò, perdono al Signore e a voi per le mie povertà e per le sofferenze che, senza volere, ho causato in qualcuno o in molti. Sento quanto siano vere le parole che Gesù ci ha insegnato: “Rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Se cinque anni fa avete accolto una persona che non conoscevate nei suoi limiti, oggi accogliete un fratello chiamato a servirvi con la sua povertà. E così mi sforzerò di fare anche io con voi.
L’ascolto della Parola, in questa giornata del Tempo di Natale, ci riporta ad un testo evangelico (Gv 1,35-42) che parla di vocazione: quante volte l’ho meditato fin da ragazzo e poi l’ho commentato a mia volta. Oggi la Parola “legge” me e voi. È l’incontro dei primi discepoli con Gesù, così decisivo al punto che Giovanni ricorda l’ora in cui, molto probabilmente, anche lui, insieme ad Andrea, rimase con il Signore: le quattro del pomeriggio. Questo brano ci dice che, nella nostra vita, ciò che è decisivo è proprio l’incontro con Cristo Gesù, dove c’è qualcuno che ci indica la sua presenza (Giovanni Battista che lo “addita” come l’Agnello di Dio); qualcun altro che lo incontra con noi (Andrea, che è insieme al discepolo); qualcuno a cui noi annunciamo Cristo e a cui Lo accompagniamo (Andrea che presenta Gesù a suo fratello Simon Pietro). La vita della comunità cristiana è questo intreccio di relazioni, nelle quali c’è sempre il Signore al centro: questo fa la differenza del motivo per cui ci chiamiamo “comunità”, di Chi conosciamo, di Chi annunziamo. Credo che il nostro cammino sarà vitale nella misura in cui, nelle nostre relazioni, Cristo torni sempre al centro. A volte questo ci sfugge, e allora… succedono guai perché noi, per quanto bravi, non siamo capaci di amare come Lui, di incontrarci in Lui, di accompagnare a Lui. E, allora, specchiamoci in questo brano per rimanere alla scuola del Vangelo, in ogni ambito della nostra vita cristiana. Senza ostentazione, ma nella verità, come ci ricorda sant’Ignazio di Antiochia: “È meglio essere cristiano senza dirlo, che proclamarlo senza esserlo”.
Mi colpisce, in questo brano, il riferimento a Simone, al quale Gesù dà il nome di Pietro, nome che rimane nella Chiesa e che ha un senso anche per noi, dopo duemila anni. Penso al suo Successore, la cui firma così minuta sottoscrive la mia bolla di nomina: “Francesco”. Ricordo le parole di rito dell’arcivescovo Francesco Cacucci all’inizio della celebrazione di consacrazione: “Avete il mandato del Papa?”. Sono venuto a voi perché chiamato ed inviato, e il legame che il Signore ha voluto stabilire tra Simone, figlio di Giovanni, e gli altri apostoli e la Chiesa intera è in quel nome: Cefa. Mi sento continuamente “pro-vocato” (nel senso di “chiamato per”) dalle sue parole, dal suo stile di prossimità e di povertà, dai suoi criteri di discernimento, che sembrano “sbaragliare” la vita della Chiesa, ma che invece la riportano alla sua identità, e chiedono anche a me e a voi di lasciarci “confermare” dal suo ministero nella nostra vita diocesana. Nel brano della risurrezione narrato dall’evangelista Giovanni, al capitolo 20, si legge che “Correvano insieme tutti e due (al sepolcro), ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo” (Gv 20,4). Oggi mi sembra che Pietro corra più di noi sulla strada del Vangelo e ci indichi uno stile in cui la Chiesa, riformandosi, sarà più credibile nelle scelte di sinodalità, di povertà, di una solida spiritualità. Sento che, in questi cinque anni, il Successore di Pietro ha guidato me e voi verso scelte non scontate. Credo che il suo magistero abbia ancora molto da dirci riguardo alla cura della fraternità, dei giovani, della famiglia, della casa comune del creato.E veniamo alla Liturgia Eucaristica. Alcuni anni fa, il mio predecessore, il vescovo Giovan Battista Pichierri, con il nostro mons. Antonio Silba, curò un testo che faceva memoria dei presbiteri della Diocesi, intitolato “Un prefazio da cantare”. Oggi, in questo prefazio, ci metto tutti i vostri volti con le storie abitate da Dio: laici e laiche, presbiteri e diaconi, religiose e religiosi. Sento che ognuno di voi è un interprete importante di ogni singola nota nello spartito della storia della salvezza che attraversa questa nostra terra. Nel prefazio ci metto anche tutti gli avvenimenti di questi anni, quelli belli e gioiosi ma anche quelli che sono stati carichi di fatica e di sofferenza. Anche le ultime note della pandemia sono state contrassegnate da fede, da carità, da speranza più vere, proprio perché più messe alla prova. Non cantiamo forse in un Prefazio: “Ogni giorno del nostro pellegrinaggio sulla terra è un dono sempre nuovo del tuo amore per noi, e un pegno della vita immortale”? (Prefazio delle Domeniche del Tempo Ordinario IV). Davvero ringrazio il Signore per tutto, proprio per tutto, nello spirito di quel “Tutto è grazia” pronunciato la sera del 2 gennaio 2016. Allo stesso tempo chiedo che lo Spirito Santo ci “trasformi in offerta gradita” a Lui, nell’unica forma possibile per essere a Lui graditi: quella della comunione. Senza ostentazione, ma facendo sì che “mens concordet voci”!
Infine, c’è il mandato finale: “Andate in pace!”, perché possiamo vivere la liturgia della vita dopo la Liturgia dei Divini Misteri, come affermano i fratelli ortodossi. Ogni anno, per l’odierna occasione, commento il passaggio di un testo che non abbandono da trent’anni, gli “Esercizi spirituali” di sant’Ignazio di Loyola. Lo scorso anno mi soffermai sull’inizio della Seconda Settimana, dove l’Autore presenta la meditazione dei Due Vessilli, quella in cui Cristo chiama a raccolta i suoi discepoli sotto la “Sua bandiera” e Satana i suoi demoni: è un passaggio molto importante del cammino degli “Esercizi” perché invita a meditare sulla scelta di vita che, prima o poi, siamo chiamati a fare, e sulle scelte che continuamente siamo chiamati a confermare. Nella propria esistenza non si è “neutrali”, o meglio si può esserlo, restando però come gli ignavi, che Dante nella “Divina Commedia” pone fuori dall’Inferno, definendoli coloro “che vissero sanza infamia e sanza lodo” (vissero senza infamia e senza meriti), “spiacenti a Dio e a’ nemici suoi” (che dispiacevano sia a Dio che ai demoni). Nella vita occorre scegliere e sapere Chi si sceglie. Un amico mi faceva notare la modalità con cui negli “Esercizi” sant’Ignazio descrive come Gesù chiama i discepoli e come li chiama Satana. Costui coinvolge i demoni e li disloca ovunque, incitandoli a gettare reti e catene per tentare gli uomini su ricchezze, onori e superbia, fonte di tutti i vizi. Il Signore Gesù, invece, invita non i suoi angeli, ma gli uomini, e fa un discorso a “tutti i suoi servi ed amici a tale lavoro (la missione), raccomandando loro di aiutare tutti col portarli, prima a una somma povertà spirituale”. Gesù ci considera amici, si fida di noi – a differenza di Satana, che è infido – non ci tratta come schiavi – a differenza del Maligno che lancia catene e lacci, segni di prigionia – si affida alla nostra responsabilità: come vorrei che ciascuno nella nostra Chiesa avvertisse che Gesù non ci considera servi bensì amici (cf Gv 15,15), sentendosi chiamato non a “vivacchiare” ma a scegliere. Il Cristo raccomanda poi di “aiutare tutti”: non ci sono distinzioni tra degni ed indegni, ma tutti sono destinatari della nostra missione ecclesiale (anche se occorre vigilare molto per farsi mai “usare” da nessuno!). Ma cosa dobbiamo fare? Sant’Ignazio indica la prima delle beatitudini, che sta come la parte che richiama la totalità: portarli ad una povertà spirituale, a quella prima condizione che apre il Discorso della Montagna: “Beati i poveri in spirito” (Mt 5,3). Siamo chiamati a far sì che nel mondo si diffonda lo spirito delle beatitudini, la legge nuova del Regno di Dio. Ricevere il mandato – anch’io lo ricevo con voi – al termine di ogni Celebrazione eucaristica, guardando al nostro futuro, significa per noi continuare a sentirci collaboratori di Dio, per annunciare e incarnare quelle Parole così rivoluzionarie: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra…” (Mt 5,3-12). In questo momento storico così particolare, la nostra missione continua e la chiamata del Signore ci interpella: anche questo della pandemia è un tempo in cui la Chiesa annuncia e incarna le beatitudini.
È la nostra missione. È quello che conta nei progetti di Dio. Tutto il resto è vanità.
Vi abbraccio e prego per noi, chiedendo che Maria Santissima ci tenga per mano e non ci faccia mai smarrire la strada del Vangelo.
Vostro Luigi, vescovo