Solo Cerignola potrà salvare Cerignola!

Anche noi, così come tanti cittadini cerignolani e non, abbiamo visto la trasmissione “Avamposti”. Non sarà stato certamente facile preparare e girare un servizio del genere e ai giornalisti va dato atto di aver avuto il coraggio per aver messo in luce i mali del nostro territorio. Un “Grazie!” ai carabinieri che “ci mettono sempre la faccia”: perché appartenere alle Forze dell’Ordine, a Cerignola, è un lavoro molto complesso e complicato.

Non è facile esprimere un giudizio oggettivo perché tanti sono gli stati d’animo che scaturiscono dalla visione e dall’ascolto di certe dichiarazioni. Istintivamente, un po’ tutti abbiamo provato rabbia e indignazione dinanzi ad alcuni dati: su tutti spicca che 37.000 sono i cittadini di Cerignola che hanno fatto i conti con la giustizia.

Questa, però, non è una novità. Già negli anni passati, la relazione della DIA parlava di un «contesto ambientale omertoso e violento», dovuto al legame dei gruppi criminali con il territorio, ai rapporti familistici dei clan e alla «massiccia presenza di armi ed esplosivi».

Non dobbiamo, tuttavia, correre il rischio di fermarci emotivamente alle prime sensazioni ed emozioni e reagire istintivamente. La consapevolezza dell’esistenza di un problema, di un fenomeno come quello mafioso e criminale, ci deve aiutare a mettere in atto strategie e avviare processi per interrompere e isolare la mafia e ogni forma di illegalità diffusa nel nostro territorio, così come anche il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha evidenziato durante la sua recente visita a Cerignola.

«C’è una linfa della malavita cerignolana ‒ scrive il nostro vescovo Luigi nella sua più recente lettera pastorale ‒ che nutre i comportamenti mafiosi con la sua struttura, le sue regole, le sue scuole, che sono la strada e il carcere. La sua potenza ‒ è stato accertato da studi e da relazioni ‒ è notevole, e in questi anni l’ha portata ad avere una sua identità che la lega con le grandi organizzazioni di altre regioni. Questa linfa drena droghe, stupefacenti, armi. Poi c’è il tronco di questo albero che, a cerchi concentrici, è composto da chi seduce i socialmente deboli, da chi li ingaggia, da chi assicura loro un reddito e fa crescere, tra furti, arresti ai domiciliari, carcere e processi, il numero di famiglie, ragazzi e ragazze madri. C’è poi la corteccia della malavita, che sembra lontana dalla linfa, ma in qualche modo la protegge: il professionista che si droga in segreto, colui che compie truffe e false dichiarazioni sul posto di lavoro, chi compra merce rubata, chi viene ingaggiato per ricevere uno stipendio ma non per lavorare (una modalità molto astuta di chiedere il pizzo!), chi divide per imperare, chi dice che non si può cambiare».

Cosa possiamo fare? Questa è la domanda che molti di noi si pongono. Come Chiesa e come comunità civile sicuramente possiamo partire e incrementare alcune buone prassi già presenti nel nostro territorio a sostegno di «tanta gente che non si piega a queste logiche – continua il Vescovo nella lettera pastorale – che “si spezza la schiena onestamente”, che si sa divertire senza “sballarsi” con le droghe, che lotta per la giustizia e la legalità».

Spostando un po’ la telecamera sugli stessi luoghi del servizio andato in onda, si sarebbero potuti vedere gli “avamposti” della Speranza che quotidianamente cercano di contrastare non soltanto la cultura mafiosa, ma di proporre un sistema educativo e lavorativo altro rispetto a quello malavitoso e criminale. Come le comunità parrocchiali con i loro oratori, il Centro Sociale “Don Antonio Palladino” nel quartiere San Samuele, il Centro “Santa Giuseppina Bakhita” in località Tre Titoli; il lavoro che la scuola giornalmente compie attraverso il suo valore educativo; l’attività silenziosa che giornalmente associazioni e cooperative, come l’AVE, Pietra di Scarto, Altereco, svolgono su beni confiscati alla criminalità e divenuti ora luoghi d’incontro e di generatività.

Con il nostro Vescovo, concludiamo affermando che, per risolvere un problema non basta vederlo, né solo giudicarlo, ma anche agire. C’è un’azione che è propria dello Stato ed una della società civile, della quale la comunità cristiana fa parte e nella quale porta il suo contributo di pensiero e di azione, soprattutto attraverso l’impegno dei laici. C’è poi un’azione propriamente ecclesiale, di denuncia e dell’annuncio di un Vangelo che libera e che salva. Il nostro compito più grande, in un territorio segnato da così grandi emergenze, è proprio l’educazione.

 

Don Pasquale Cotugno

Direttore della Caritas diocesana

 

Avv. Gaetano Panunzio

Direttore dell’Ufficio Diocesano

per la Pastorale Sociale